L’autentica storia della ricciola imolese
Qualche chiarimento sulla vera natura della ricciola imolese, la pasta salata che tutti conoscono ma che (quasi) nessuno ha mai assaggiato.
Che la si chiami ricciola, girella, treccina poco conta: tutti noi abbiamo almeno una volta nella vita addentato quella brioche salata assaporandone la friabilità e il lieve sentore di rosmarino che resta aggrappato sulla punta della lingua.
C’è chi la inzuppa nel cappuccino schiumoso, chi la gusta sfogliandola in piccoli morsi, chi la sostituisce al pranzo quando è troppo di fretta, chi la porta ai figli per la merenda a scuola. È un prodotto da bar e da forno onnipresente e noto a tutti, ma non tutti sanno che la vera “ricciola” (questo il nome originario) non è quella che siamo abituati a gustare quotidianamente.
Contrariamente alle informazioni che si trovano online, la ricciola imolese non fu inventata a Imola, ma a Forlì nella pasticceria Flamini. Lì, intorno ai primi anni cinquanta, lavorava un giovane imolese di nome Angelo Ricci il quale, dopo qualche anno, decise di licenziarsi per intraprendere una stagione estiva a Rimini presso una pasticceria nel centro storico. Angelo portò con sé il sapere accumulato negli anni e la ricetta della ricciola, così da accontentare il goloso mercato della riviera romagnola, già all’epoca meta balneare per eccellenza da parte di italiani e stranieri.
Qualche anno dopo, rientrato a Imola, rilevò un delizioso locale situato proprio accanto ai Giardini Pubblici che, con l’aiuto dei suoi due figli, fu adibito a bar e laboratorio artigianale divenendo in brevissimo tempo un punto di riferimento per la città e il locus amoenus degli amanti della ricciola.
La deliziosa creazione salata che saluta con le mani il pane e strizza l’occhio al croissant, sembra essere stata realizzata attraverso una classica pasta sfoglia più generosamente condita, arricchita con burro, sale grosso, rosmarino e il cosiddetto “olio buono”.
La ricetta di Ricci è stata custodita in famiglia, passando dal padre al figlio Ermes che, dopo aver lasciato il progetto del Bar dei Giardini, decise di non tramandare la ricetta e i segreti del padre: la ricciola imolese, così come fu concepita e realizzata in origine, resta un ricordo proustiano e una memoria sensoria per quei pochi che hanno avuto la fortuna di poterla assaporare.
Il mistero ha stimolato pasticcieri e fornai alla ricerca della texture perfetta, del giusto equilibrio di sapori e di una conferma alla memoria della vera ricciola.
Tra le versioni più verosimili e fedeli all’originale, c’è quella che lo Chef Valentino Marcattilii (ex dipendente dell’antico Bar dei Giardini) propone ai suoi clienti nel celebre ristorante San Domenico a Imola.
Dopo una piacevole chiacchierata con Valentino, ho scoperto che ciò che rende davvero speciale la ricciola originale, oltre alla freschezza e alla qualità degli ingredienti, è la tecnica e la manualità che il prodotto necessita per la sua riuscita.
Come saggiamente mi ricorda lo hüber-chef, il problema è che oggi nella maggior parte dei laboratori e delle pasticcerie si utilizzano prodotti e farine già lievitate che compromettono la fragranza e la consistenza propria del prodotto, rendendolo molto più simile a una brioche e tradendo dunque una delle caratteristiche della vera ricciola.
La vera ricciola deve sfogliarsi delicatamente ad ogni morso, deve concedere alle papille un lieve ricordo di burro, senza però risultare unta, deve essere gentilmente condita con un pizzico di sale grosso e rosmarino ma non deve obbligarti a bere litri d’acqua non appena terminata. È una questione di equilibrio di sapori ma soprattutto è una questione di artigianalità e dedizione nei confronti della tradizione.
I migliori e più celebri prodotti da forno che produciamo in Italia sono il segno del passato che si rifrange sul presente: è il profumo di farina che si irradia dalla cucina, la vista del canovaccio che sale quando l’impasto lievita, l’attesa del fornaio che apre le serrande alla luce dell’alba.
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